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Marisa Dalai Emiliani - 1982

Presentazioni

Dentro e fuori l'immagine
presentazione di Marisa Dalai Emiliani
per il catalogo della mostra antologica retrospettiva organizzata dal
Comune di Milano a Palazzo Dugnani nell'ottobre 1982.


Dentro e fuori l'immagine: è quasi una dichiarazione di poetica, ripetuta per tutte le possibili variazioni tematiche tentate - Dentro e fuori la musica; Dentro e fuori il paesaggio; Dentro e fuori se stessi; Dentro e fuori la natura, le cose, l'uomo -, ma in prospettiva può diventare anche un'indicazione di lettura, un invito a misurare la complessità e la solitudine di un lavoro in rapporto a uno scenario e a un contesto. Come dire, poco meno di vent'anni di storia figurativa, tra 1960 e 1977, a Milano e altrove, nel corso dei quali riconsiderare autenticità e sconfitte di un'esperienza rimasta troppo a lungo irrelata e, in fondo, segreta.
Certo, è difficile immaginare uno scarto più netto tra dimensione pubblica di un'esistenza e duro isolamento di una ricerca. Perchè troppo viva è ancora nella memoria la presenza sensibile e vitalissima di Nelia Massarotti nei luoghi o nelle occasioni della vita culturale della città, nelle sale da concerto come alla Scala, in libreria (non è un caso che la figura familiare di Cesarino Branduani sia tra i suoi primi, affettuosi studi di ritratto) o alle mostre; e il suo interesse insaziabile e intelligente per la lettura, la passione per la musica, che spiegano l'amicizia profonda con scrittori come Gramigna o musicisti come Abbado e Pollini, testimoniata da commosse parole in questo stesso catalogo, o ancora, la sua generosa disponibilità nella casa-studio così ospitale di via Maddalena, dove si faceva musica e si discuteva di letteratura e poesia, per la verità ben più che delle tele e dei disegni sparsi un po' dappertutto, rendono quasi incredibile il silenzio critico che ha circondato fino all'ultimo la sua pittura.
Ma quadri e fogli, un turbine di fogli animati dal suo segno fulmineo, inconfondibile, insieme ai frammenti di pensieri e appunti dei suoi taccuini e alle note schizzate a margine dei suoi amatissimi libri diventano finalmente oggi il dato essenziale, la sola evidenza cui affidarsi per tentare di capire il senso di un destino: ancora una volta quello di una donna nonostante tutto sola nell'ostinazione di realizzarsi parlando per immagini, nel coraggio di bruciare tranquille sicurezze per un'avventura intellettuale totalizzante e forse senza sbocco.
C'è, negli anni della formazione che hanno preceduto il suo affacciarsi alla ribalta della vita artistica milanese, un indizio importante, come una doppia matrice contraddittoria che più tardi determinerà l'originalità e insieme le incertezze o antinomie del suo percorso: la tesi su William Morris, discussa per la laurea in inglese a Milano, alla vigilia della guerra; e, nell'immediato dopoguerra, le lezioni di pittura seguite privatamente nello studio dell'anziano maestro Lazzaro Pasini. Da un lato, una seria preparazione letteraria, occasione e tramite per riflettere su un grande problema europeo come quello dell'artigianato e dell'industria artistica, con tutte le implicazioni sociali evidenziate nel dibattito intorno alle
Arts and Crafts nell'Inghilterra vittoriana; dall'altro, un'iniziazione al fare, proba ma ancorata a una tradizione provinciale ottocentesca, se è vero che nella lontana giovinezza Pasini era stato scolaro di Giovanni Fattori all' Accademia fiorentina e che proprio di Fattori è l'esortazione agli allievi che Nelia fissa in un appunto senza data: «fate qualcosa che possa urtare noi vecchi». Le opere del suo esordio alla Galleria Cairola, nel '60, benché presentate da Leonardo Borgese, dimostrano quanto abbia preso alla lettera quelle parole: spezzato l'equilibrio spaziale delle prime quiete scene d'interno, l'articolazione dell'immagine diventa neocubista, la tavolozza intonata su gamme cupe, tra il verde e il bruno, ogni naturalismo superato dalla tensione espressionista delle figure. Sarebbe un fare torto alla sua diffidente insofferenza per le formule e le tendenze voler etichettare queste prove, ma se di sintonia si può parlare certamente è con l'area di ricerca della nuova figurazione che nel persistente dilagare dell'informale si viene affermando in vari paesi europei (a Parigi, alla Galerie Mathias Fels, la mostra Pour une nouvelle figuration si tiene nel 1961) e che a Milano viene proposta dai cosiddetti «pittori urbani», un gruppo di giovani sostenuto da Mario De Micheli. La partecipazione di Nelia Massarotti al Premio Suzzara dal '62 al '67 sembra confermare affinità che non sono comunque ideologiche, ma di scelta di campo: un' arte per l'uomo, che non sia puro gesto individuale o effusione esistenziale nè astratto e gratuito esercizio formalistico; e i modelli in cui riconoscersi sono Bacon e Giacometti, o per altro verso de Stael e de Kooning. Ma punto di riferimento ineludibile, per tutti, rimane Picasso. Anche Nelia, nel '63, a Saint-Paul-de-Vence e ad Antibes si confronta con la sua opera proteiforme, dialoga con i suoi collages e disegni, è colpita soprattutto dalla sua illimitata capacità di sperimentatore di materiali e tecniche, fissa nella memoria «costruzioni sovrapposte», supporti di «legno compensato o masonite», «ritagli di fotografie su fotografie» e «nei dipinti, musicalità a onde»: studi, spunti, soluzioni, temporaneamente archiviati, ma solo per poterli sviluppare più avanti, al momento opportuno. Intanto, l'esercizio continuo del disegno è un altro modo per crescere; i paesaggi attraversati e le figure degli incontri casuali o quotidiani sono fissati sui fogli con una grafia veloce, nervosa, che procede per stacchi e condensazione del segno e rivela un approfondimento molto attento e personale di fonti poco frequentate da noi. Da un lato, la scrittura lirica e smaterializzata di Feininger, il meno noto dei «quattro azzurri» (con Kandinsky, Klee, Jawlensky), ma scoperto prestissimo per la segnalazione di un amico tedesco; dall'altro, l'espressionismo più violento e deformante, nell'immagine stravolta dell'uomo, di Kokoschka. Per inconciliabili che possano sembrare, è per queste due vie che Nelia, bruciando le tappe, riesce a costruirsi un linguaggio grafico di straordinaria duttilità ed efficacia. Ormai è chiaro: il disegno è il suo essere, la pittura il suo dover essere. Lo capisce fino in fondo, con esaltazione e angoscia, alla Biennale veneziana del '64, nelle sale dei padiglioni USA: «Non ho mai sentito più di qua il senso della distruzione / fuori a coté - a lato - dentro - davanti - sotto / sogno Rauschenberg / Venezia annullata / colore e pubblico più niente e tutto da rifare - tutto da interpretare / rifare dal niente». Non s'era quasi accorta del neodadaismo, dei prodotti del nouveau réalisme esposti alla Galleria Apollinaire fin dal '60, delle pratiche di azzerramento della pittura realizzate proprio in quegli anni a Milano da Piero Manzoni, impegnata com' era a organizzare colori e forme nello spazio della tela (e dal piccolo formato iniziale era presto passata alla grande dimensione di Tempo degli uomini o Coralità, con cui aveva vinto un Premio Suzzara nel '62). Ma la pop art mette in crisi tutto il suo lavoro precedente: d'insoddisfazione nata dall'idea del dipinto come qualcosa di piatto appeso alla parete è implicita nell'arte di Rauschenberg», scriverà vicino all'indicazione del libro di Ugo Mulas su New York - Arte e persone; e ancora: «Il concetto della natura fisica dell'opera d'arte è mutato ... il quadro scende e esce dalla porta». Il progetto si precisa nel ' 65: «Ormai far volare tutto / pittura nello spazio / non c'è niente di fisso». Ma il difficile processo di liberazione dalla bidimensionalità del supporto tradizionale potrà dirsi compiuto solo nel ' 67, quando alla Woodstock Gallery di Londra espone per la prima volta le sue «costruzioni», dipinti - oggetto realizzati fissando asimmetricamente un telaio su compensato di maggiori dimensioni e articolando dialetticamente l'immagine sui due piani. E' la conquista della fisicità della materia e insieme di una manualità artigianale - forse di morrisiana memoria - che riscatta la persistente fedeltà a un'idea di rappresentazione, sia pure aggiornata sui modelli semplificati e freddamente tecnologici della pop art. L'anno successivo, alla Galleria Mosaico di Chiasso, tutte le sue opere sono come sdoppiate, la figurazione si sviluppa in positivo e negativo non necessariamente in rapporto al tema (come in Sonno e insonnia, uno degli esiti più suggestivi), mentre l'imagérie evoca motivi surrealisti ispirati più a Sutherland, al suo bestiario inquietante, che ai classici modelli francesi.
Tra '69 e '71, l'anno di tre mostre impegnative che si tengono rispettivamente a Barcellona, Wiesbaden e finalmente anche a Milano, ma in uno spazio sui generis, le linee della sua ricerca si fanno anche più chiare, mentre cresce fino a diventare insostenibile il disagio di non trovare interlocutori qualificati, di muoversi in circuiti periferici, costretta per vivere a una produzione parallela di gouaches decorative, per un collezionismo e un mercato anonimi. È anche da questa umiliante prigionia del quotidiano che nascono due serie di opere di profonda suggestione e gittata fantastica. Il tema della morte della poesia, o dell'incomunicabilità montaliana, è come materializzato in una struttura - gabbia di listelli di legno che simbolicamente trattengono fantasmi d'immagine; al polo opposto, deserti di paesaggio -
Paesaggio interrotto; Paesaggio scomparso; Paesaggio riflesso; Paesaggio lacerato; Paesaggio sommerso; Paesaggio squassato -, variazioni sul tema della natura violentata e irrigidita in ambiente artificiale, realizzati su grandi tavole di legno incernierate che possono aprirsi nello spazio reale di una stanza e dilatarne le dimensioni, moltiplicando le direzioni dello sguardo. È forse questa la risposta più coerente, in termini di pittura autentica e insieme di ironia, che Nelia sa dare a un'ipotesi alla moda, quella di una environmental art.
Ma anche il suo continuo sperimentare con mezzi «poveri» di riproduzione dell'immagine, il suo proporre «xeromultipli» dei disegni più convincenti prelevati dal flusso continuo della sua produzione, è segno della volontà di non perdere il contatto con il presente. Del resto i «ritratti dal vivo» e i «paesaggi in velocità», catturati i primi dal piccolo schermo televisivo e gli ultimi fissati dal treno in movimento con quel tratto continuo, fulmineo, infallibile nell'isolare la sintesi significativa di una fisionomia - non credo di conoscere esempio più stupefacente della teoria di Gombrich sull'ambiguità del concetto di somiglianza, indagato nel saggio memorabile
The Mask and the Pace: the Perception of Physiognomic Likeness in Life and Art (1967) - sono sicuramente tra i disegni più moderni creati in anni recenti.
Che l'incontro tra questa prodigiosa mobilità e il colore non sia avvenuto che molto tardi, nelle carte esposte per l'ultima volta alla fine del '77, accresce il dolore per il lavoro interrotto, lo strazio di quel messaggio - presagio:
A come assurdo, A come amore.



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